Mettiamo in carcere pure Google
di Stefano Ciavatta
La prima email di segnalazione è stata di un privato italiano – spiega al Riformista l’avvocato Giuliano Pisapia, legale difensore con Giuseppe Vaciago, dei tre dirigenti di Google condannati ieri dal tribunale di Milano in relazione a un video che mostrava un minore disabile di una scuola di Torino vessato dai compagni, che venne caricato su Google Video il l’8 settembre 2006 e lasciato online fino al 7 novembre. Ed è arrivata a Google in Irlanda che l’ha girata subito negli Usa. Nel frattempo la polizia postale italiana venne allertata da una senatrice che aveva ricevuto le proteste dell’associazione Vividown. La polizia postale il 7 novembre 2006 avvisò la Procura della Repubblica dicendo che dopo aver invitato i gestori del sito a rimuovere il video il giorno prima, alle ore 21 (sempre del 7 novembre) si riceveva notizia che il video era già tolto da alcune ore». Ma per la legge italiana non è stato sufficiente.
Per i tre dirigenti condannati, David Carl Drummond (ex presidente del cda e legale di Google Italy e oggi Senior vice presidente e dirigente del servizio legale), George De Los Reyes (ex membro del cda di Google Italy, ora in pensione) e Peter Fleischer (responsabile policy sulla privacy per l’Europa di Google), i pm Alfredo Robledo e Francesco Cajani avevano chiesto la condanna a un anno di reclusione. Per Arvind Desikan (responsabile progetto Google Video per l’Europa), oggi assolto, era stata invece chiesta la condanna a sei mesi. Tutti e quattro gli imputati sono stati assolti dall’accusa di diffamazione, ma condannati appunto per violazione della privacy.
Cosa vuol dire? Dice Pisapia: «Se alla violazione della privacy il giudice avesse legato la diffamazione avrebbe sancito l’obbligo di censura preventiva da parte degli hosting provider su internet». Ma anche con questo primo provvedimento, le condanne rappresentano un evento perché come dicono da Google, «questa decisione significa che i dipendenti di piattaforme di hosting come Google Video sono penalmente responsabili per i contenuti caricati dagli utenti». Vale a dire che colpito Google come intermediario, può venire coinvolta tutta la rete: se non è Google Video, è Youtube, o qualsiasi bacheca online dove poter caricare video e condividerli sul web che a questo punto non sarebbero più piattaforme neutrale e verrebbero sottoposta ad un obbligo di controllo. Inoltre da sempre la rete porta con sé una ambiguità intrinseca, una estensione dei confini, per cui quando si parla di misure di filtraggio, nessun ambito esclude l’altro. Si parla di filtraggio pedopornografico? Si lambisce teoricamente anche il diritto d’autore.
Cosa dice la legge a riguardo? «In questo caso bisognerà leggere le motivazioni -spiega Pisapia – anche se la decisione genera perplessità poiché contrasta con le direttive europee e italiane».
Sul web si levano voci di protesta, qualcuno parla di anticamera della censura. Esistono meccanismi automatici per monitorare senza violare la privacy? Pisapia rivela: «Abbiamo utilizzato le consulenze di esperti italiani per dimostrare che anche se è possibile far “passare” i video in macchine particolari che riconoscono i nudi e le macchie di sangue, segnalando secondo una gradazione di tipologia contenuti presumibilmente violenti o pedopornografici – ma sempre da verificare di persona – il filmato deplorevole non aveva caratteristiche peculiari che potevano in automatico far emergere allarme». E quindi «la responsabilità non può che essere che dell’utente che ha sottoscritto un contratto con Google con cui si impegnava ad avere il consenso dei soggetti e dichiarava di non mettere contenuti illeciti». Infatti Google, rispondendo a suon di comuncati ricorda che la persona che a suo tempo caricò il video «è stato identificata e poi condannato dal Tribunale di Torino a 10 mesi di lavoro al servizio della comunità, e con lei diversi altri compagni di classe coinvolti. In casi come questo, rari ma gravi, è qui che il nostro coinvolgimento dovrebbe finire».
Google va giù duro: «Ci troviamo di fronte ad un attacco ai principi fondamentali di libertà sui quali è stato costruito Internet. La Legge Europea è stata definita appositamente per mettere gli hosting providers al riparo dalla responsabilità, a condizione che rimuovano i contenuti illeciti non appena informati della loro esistenza. La motivazione, che condividiamo, è che questo meccanismo di “segnalazione e rimozione” avrebbe contribuito a far fiorire la creatività e la libertà di espressione in rete proteggendo al contempo la privacy di ognuno. Se questo principio viene meno e siti come Blogger o YouTube sono ritenuti responsabili di un attento controllo di ogni singolo contenuto caricato sulle loro piattaforme – ogni singolo testo, foto, file o video – il Web come lo conosciamo cesserà di esistere, e molti dei benefici economici, sociali, politici e tecnologici ad esso connessi potrebbero sparire».
In soccorso del colosso di Mountain View arrivano le istituzioni americane come l’Ambasciatore Usa, David Thorne, «siamo negativamente colpiti dalla odierna decisione di condanna di alcuni dirigenti di Google per la pubblicazione su Google di un video dai contenuti offensivi. Pur riconoscendo la natura biasimevole del materiale, non siamo d’accordo sul fatto che la responsabilità preventiva dei contenuti caricati dagli utenti ricada sugli Internet service provider». Ma soprattutto l’altrettanto autorevole TechCrunch, il sito di tecnologia più seguito in America: «Possiamo spiegare al giudice italiano Oscar Magi cos’è YouTube?» scrive Mike Butcher parlando di «accuse ridicole».
Come Google, anche gli internet service provider sono in allarme, gli altri intermediari della rete: «É inaccettabile – commenta Dario Denni, segretario dell’Aiip (Associazione italiana Internet Provider) – che la responsabilità penale personale di un soggetto privato venga trasferita ad un operatore che si trova nell’impossibilità oggettiva di controllare un contenitore immenso di contenuti video come YouTube e non abbia obblighi legali di controllo su ciò che i privati liberamente caricano su quella piattaforma. Non possiamo addebitare la responsabilità degli automobilisti ai manutentori delle strade». Del resto è un concetto che ribadiscono anche i legali dei condannati: «Mezz’ora fa il video è passato in tv sui telegiornali. Per i media è una scelta di informazione. Ma come fa Google a scegliere se non è obbligata a sorvegliare? Può muoversi solo in caso di segnalazione giudiziaria».
Il Parlamento intanto si divide: per Bruno Murgia (Pdl) «la sentenza è molto discutibile. Siamo alla violazione della privacy per interposta persona», per Paolo Gentiloni (Pd) «il principio della responsabilità dei motori di ricerca o dei social network per i contenuti messi in rete dagli utenti, affermato dalla sentenza è un precedente unico e allarmante»: Per Maurizio Gasparri, è una sentenza esemplare, ma per altri versi. Per il presidente del Garante della Privacy Francesco Pizzetti, «urgono regole condivise».