di Dario Denni
Mi rendo perfettamente conto " mio malgrado – che è solamente il risultato politico parlamentare, l´unico ad interessare i giornali e l´opinione pubblica. Io invece, resto ancora arroccato sulle premesse teoriche " per me inviolabili " su cui si basa buona parte del diritto costituzionale italiano. Non me la sento, almeno per il momento, di rinnegarle.°
Un decreto legge è già di per sé un piccolo ricatto confezionato ad arte dal Governo, quando si impossessa – in via eccezionale – del potere legislativo costituzionalmente riservato al Parlamento. Ciò gli è permesso solamente a fronte di casi che per ragioni di necessità e di urgenza, non potrebbero essere efficacemente regolati, attenendosi alla normale procedura legislativa.
Si tratta di una speciale deroga " ammessa e positivamente prevista dalla Costituzione -° al principio della separazione dei poteri. Tra l´altro ci sono intere materie che restano ontologicamente precluse a questo strumento, proprio perché riservate alla legge. A questo punto ci starebbe bene spendere almeno due parole sull´istituto della riserva di legge, ma ve le risparmio solamente per non tediarvi ancora e a lungo sulle regole di comparto della competenza tra gli organi dello Stato. Non mi sembra così ostico comprendere che un Bilancio, ad esempio, non può validamente essere approvato con decreto legge, ma che deve necessariamente passare per l´Aula.
Ora il punto della situazione è capire se anche una materia " quale è quella delle liberalizzazioni " può essere suscettibile ad essere disciplinata con un atto avente forza di legge, piuttosto che con un regolare percorso parlamentare. Io credo di no.
Lo strumento della decretazione d´urgenza, l´ho gia detto e non sono l´unico a pensarla così, è un ricatto che dura 60 giorni ma che produce nefaste controindicazioni per il solo fatto di esistere. Anzitutto non ci sono le premesse di coerenza tipiche di un atto normativo con tutta quella serie di ammortizzatori parlamentari che sono le analisi di impatto economico e le indagini conoscitive. E così il dibattito si sposta direttamente dalle commissioni alle pagine dei giornali. In casi estremi, sfocia nella protesta delle piazze. Limitatissimi risultano essere i poteri emendativi dell´aula in sede di conversione e il danno è ancora maggiore se questo castello cade per mancata conversione, una volta scaduti i 60 giorni. Anche in questo sta il ricatto: in una sorta di prendere o lasciare, dove se prendi il Parlamento risulta castrato e nella seconda ipotesi, si sviluppa solo un lavorio per i giudici, poi tradotto in business dagli avvocati.
Questa premessa non pretende di esaurire in alcun modo tutte le problematicità della decretazione d´urgenza, ma ci offre quanto basta per passare all´analisi della cosiddetta questione di fiducia. Una pratica da non confondere con la fiducia che invece chiede ogni nuova formazione di Governo, quando si presenta alla Camera dopo essere passata per il Quirinale.
Detto brutalmente, la questione di fiducia è un altro ricatto del Governo, solo che stavolta non è diretto al Parlamento nella sua interezza, quanto piuttosto alla stessa maggioranza politica che lo legittima a stare alla guida del Paese. Si intende in questo modo, bypassare per intero la discussione in aula, e andare direttamente alla fase di voto. La cosa è doppiamente frustrante per l´opposizione politica, che da un lato viene messa a tacere, e dall´altro vede sfumare ogni tentativo ostruzionistico posto in essere con la presentazione di una valanga di emendamenti, oppure con l´iscrizione di tutti i deputati, a prendere parte al dibattito. Ma si tratta senza dubbio di un´arma a doppio taglio per il Governo, che infatti rischia di cadere laddove la sua stessa maggioranza non cede al ricatto, determinando poi l´apertura della crisi.
Ecco spiegato perchè la questione di fiducia mal si concilia con la decretazione d´urgenza. E´ un doppio salto mortale carpiato che il Governo fa prima al Parlamento, imponendogli un testo chiuso, poi alla sua stessa maggioranza, imponendole come votare per non morire, e infine all´opposizione politica, impedendole la sua naturale posizione di critica democratica.